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Ecce homo!

Nel testo sono presenti collegamenti a 16 foto!




«Poiché prevedo che fra breve dovrò presentarmi all'umanità col piú grave problema che le sia mai stato posto, mi pare indispensabile dire chi sono. [...] Io non sono affatto un orco, un mostro di immoralità: sono il contrario di quella specie d'uomo che finora è stata onorata come virtuosa. [...] Sono un discepolo del filosofo Dioniso, preferirei essere un satiro piuttosto che un santo. [...] L'ultima cosa che io mi sognerei di promettere sarebbe di migliorare l'umanità. Io non innalzo nuovi idoli; gli antichi forse potrebbero imparare da me che cosa significhi avere i piedi d'argilla. Rovesciare gli idoli – cosí io chiamo gli ideali – ecco il mio compito. [...] Chi sa respirare l'aria che circola nei miei scritti, sa che è l'aria delle grandi altezze, che è un'aria fine. [...] La filosofia nel senso in cui finora l'ho interpretata e vissuta io, è libera vita tra i ghiacci, in alta montagna, è la ricerca di tutto ciò che vi è di strano e di enigmatico nell'esistenza, di tutto ciò che finora era inibito dalla morale.»

Friedrich Wilhelm Nietzsche




È sabato 16 luglio e uno dei due “tesorini” del Ferrys (Luciano Ferrari, del quale ho già parlato a lungo in altri frammenti di pensieri; vedi qui, qui e qui), la sua amata figlia maggiore Irene, si sta per sposare. Bunny, Celi ed io, i tre discepoli prediletti, ormai amici storici, non manchiamo all’appello. Siamo tutti in attesa, sul sagrato della chiesa; alle dieci in punto, in perfetta armonia con i rintocchi delle campane (ineccepibile puntualità Ferrari!), arriva l’auto della sposa e per poco, complice il solleone, non ci prende un colpo: Irene, non ne dubitavamo, è radiosa come non mai, ma il babbo, che le porge il braccio, pare Colombo uscito dalla banconota da 5.000 lire degli anni Settanta… Mai prima di allora l’avevamo visto acconciato e stirato a quel modo! Il Prof avanza verso di noi guardandoci di sottecchi, ma, dopo pochi passi, il suo viso, già imperlato di sudore, si contrae in una smorfia di dolore. Pensiamo all’unisono e con sgomento a uno spasimo mitrale, al cuore del vecchio Boia, ammansito dall’età, che sta per lacerarsi… Persino la sua pochette pare zampillare dal taschino della giacca intrisa di sangue coronarico!

«Suvvia Prof – prova a scuoterlo Celi –, che ti prende? È forse un pianto “metaforico” il tuo?»

«Sta’ zitto, altro che metaforico, è “metadentrico”, e anche tanto “dentrico” – ribatte il Prof al quale nemmeno in punto di morte potrà sfuggire un assist ben piazzato –, perché da oggi inizia il mio lutto; povero me, come farò senza la mia Irene da stasera…»

Ecce homo! Algior Lucifer, il Pazzo, il Boia, talora lo Pseudozaratustra, è scomparso, non è piú l’orco o il carnefice, né il mostro dal cuore di pietra di una volta, mormoriamo sommessamente: le sue calde e copiose lacrime ce ne forniscono la prova inconfutabile, e noi siamo onorati e commossi di esser testimoni dell’evento.

Il Ferrys, non sposato in chiesa, non battezzate le figlie (ma neppure contrario alle loro scelte spirituali), si accinge a entrare nel luogo sacro in quello stato d’animo, che pare persino preludere a una tarda “conversione” miracolosa. Durante la cerimonia non mancano momenti di apprensione, e gli sguardi preoccupati dei presenti sono rivolti piú a quel padre in piedi là in disparte, appoggiato a una panca, che ai due sposi di fronte all’altare. Ogni tanto egli ritrova un po’ di lucidità per apprezzare la fine bellezza dell’altra figlia Katia, o per ironizzare sul Filosofo, il secondo futuro genero, ma sono solo i riflessi incondizionati di una maschera sempre piú sofferente.

Celi ed io, creando non poco rumore di fondo, cerchiamo di distogliere l’attenzione del Prof dal chiodo fisso dell’abbandono, del “tradimento” della figlia, del “ratto” di cui Morfeo è, proprio in quell’istante, felice reo confesso. Anche il fratello Giorgio, il Giò dell'era del Vostok (vedi qui), viene in soccorso e cosí, tra una risata, un pianto e un lamento, riusciamo a far riandare con fatica la mente del nostro mentore ai “vecchi tempi”, lontano dall'odierno momento solenne; infine, le note dell’Ave Maria di Schubert, cantata in tedesco, segnano la fine del rito religioso, di cui ben poco abbiamo visto e udito! D’obbligo la foto tra gli sposi, ma lo sguardo del padre, tra l’interrogativo e lo stupito, volge da una parte sola…

Fuori dalla chiesa, alla luce intensa del giorno, il Prof ritrova il sorriso e la verve per sparare alcune delle sue migliori battute, anche se continua a ripetere sottovoce che “il peggio” sarebbe arrivato la sera, tornando a casa e trovandola piú povera, inesorabilmente defraudata di uno dei suoi due gioielli. Abbiamo tutto il resto della giornata per tentare di esorcizzare questi fantasmi, è la nostra missione…

Arrivati al ristorante, ci muoviamo d’istinto verso il giardino, in cerca di un po’ di frescura. Il Prof inizia ad accendere una sigaretta dopo l’altra e a chi osa osservare che non gli fa certamente bene tutto quel fumo, egli risponde lapidario che è proprio per quello che fuma! Niente da fare, sono ancora il pessimismo cosmico e la depressione ad avere la meglio…

D’improvviso, come altre volte era accaduto in passato, ecco una scintilla; il Bunny, interrogato dal Prof sulla sua professione di “grande e ricchissimo manager nell’informatica”, esordisce con la formula che l’ha consegnato alla storia nella “Scuola” (il libro di Algior Lucifer di cui ho già riferito):

«In verità, Prof, io sono un semplice dipendente…».

Bontà sua, il Prof si rianima con un grido e in un baleno quel simposio tra amici, che si ritrovarono a cena per rivivere le vicende narrate nell’opera monumentale, si ricrea nell’attesa del lungo pranzo di nozze.

«O Bunny – dice il Prof –, ma con tutti i soldi che hai fatto sei ancora “misero e tapino” come dicevi di te stesso quando ti interrogavo per la terza volta in un giorno?»

«Prof – interviene Celi anticipando la risposta del Bunny –, almeno lui “misero e tapino” se lo diceva da solo; ma non vi ricordate che io per te ero “il tossico”, “il zinghero”, “il pidocchioso”?»

«E certo – incalza il Prof –, piú volte ti ho ricordato che l’avresti detto anche tu a trovarti davanti un ceffo come il tuo all’epoca, con quei capelli neri, lisci, che parevano unti, scesi oltre le spalle…»

«Di nuovo grazie per la finezza, Prof! I miei capelli all’epoca erano fino al culo!»

E giú lungo questo ricco filone, con ricordi un po’ nostalgici, ma sempre efficaci ed esilaranti.

A un certo punto, il Prof dice che prima di arrivare al giardino, ha sentito uno che biascicava una frase in inglese, qualcosa che egli a scuola avrebbe vergato in blu e sostituito con “in fieri”, ma, pur non ricordando le parole, gli piaceva il suono (chissà, magari per usarlo in qualche appendice della “Scuola” a noi ancora ignota…).

Uno dopo l’altro proviamo a immaginare quale potesse essere l’espressione felice, buttando lí un “in process” e un “at work”, “finché non salta fuori l’atteso “work in progress”!

«Sí, bravo Celi, proprio “uorc-in-progres”, devo mandarlo a mente! E a proposito di castronerie, e della vostra lingua da “menager”, ma ve la ricordate la farsa con la Gabriella [insegnante di inglese dell’Itis “Galielo Galilei” di Avenza, n.d.a.]?»

«E come dimenticarla – commentiamo in coro –, però ogni volta ci piace ascoltarla, perché saltano sempre fuori particolari inediti…»

«E va bene… se proprio insistete! Al rientro a scuola dopo la pausa estiva, la Gabriella mi chiese della mia vacanza. Illuminato come spesso mi capita, buttai lí che ero stato nella perfida Albione, da dove le mandai mille accidenti, a causa della lingua a me ignota. Le dissi che avevo cercato di salvarmi appoggiandomi ai locali, spaghetterie, pizzerie, e cercai di farmi dire da lei ciò che ovviamente non potevo sapere io, con giochetti come “ero in quella piazza grande… come si chiama…”, e lei “…Trafalgar Square?”, “sí, sí proprio quella” confermavo io. Ebbene, le dissi che in quella piazza, là sulla destra, dove ci sono quei palazzoni, dalle insegne enormi, adocchiai una “Spaghetti House”, e visto che erano le sedici e non avevo ancora mangiato nulla, entrai e chiesi degli spaghetti all’amatriciana. All’espressione soddisfatta della Gabriella, che confermò la bontà della mia scelta, trattandosi della specialità della casa, contrapposi subito la cafoneria del “pinguino” che mi rispose “col chèz!”, un’espressione della sua stramaledetta lingua a me sconosciuta, vista anche la limitatezza delle mie conoscenze. La Gabry mi fece ripetere dieci volte “col chèz” per cercare di afferrare la giusta pronuncia, poi concluse che forse avevo capito male, o che doveva trattarsi di slang. Il tutto, già esilarante di per sé, avrebbe potuto finire cosí, ma dopo qualche giorno la Gabriella irruppe in un crocchio di professori con me al centro, tutti a conoscenza della vicenda, e disse con aria trionfante che non avevo capito niente, e che a Londra la figuraccia l’avevo fatta io, non certo il cameriere! Appena calato il silenzio, tra lo sbigottimento dei presenti, lei sentenziò che il boy non mi aveva detto “col chèz!”, ma “col caz!”, che, sono parole sue, “è un piatto freddo, visto che alle sedici forse la cucina era chiusa”! Come ben sapete, la storia diventò leggenda…

E vi ricorderete anche la storia di “Pithaar”, vero? Non fatemela raccontare tutta, ché ci vorrebbe un’ora, però anche in quel caso l’ingenuità della Gabriella toccò vette altissime. Un giorno mi raccontò di un suo trascorso in Scozia, dove aveva conosciuto “Pithaar”, mostrandomi la foto del giovanottone in kilt. Lei era pronta a difendersi dai miei prevedibili attacchi sulla faccenda del kilt e di quello che poteva esserci sotto, ma io ebbi un altro dei miei lampi. Cosí la rimproverai che aveva inteso mettermi alla prova, giocando con i significanti, usati in conto dei significati italiani, perché non aveva trovato, che so, un John o un Arthur, ma “Pithaar”, scritto “peter”, in carrarino omonimo ed omofono dell'organo genitale, per l'appunto, maschile singolare! Inutile dire che mi presi del satanico, ma io amabilmente la corressi: “Pornostalinista, prego!”.»

Nessuno osa interrompere il fiume in piena, perché l’amarcord sarà anche nostalgico, ma ogni volta che il Prof si tuffa nel passato vediamo il suo viso illuminarsi e distendersi, e oggi è quanto mai salutare l’esercizio.

«E pure la storia di Trinelli e del pitone di Benevento – riprende il Prof rivolto a me – non è forse consegnata alla leggenda? Ma non ve la racconto perché ora lui ha il “blogg”, e ha scritto anche del lombrico annaffiato dalla sua orina; leggi Bunny, ci sei anche tu… Eh sí, Trinelli ha il “blogg” e parla con i computer; l’ultima volta che è venuto da me gli ho detto che il mio di computer aveva qualche problema e non riuscivo piú a farlo stampare. Lui, il “grand menager”, ha proferito che per capirci qualcosa sarebbe stato piú utile un tecno-archeologo, però poi, lamentandosi per la mia tastiera “a rischio di tetano, tifo e colera” (e solo per un po’ di letame stratificato sui tasti…), si è seduto e ha iniziato a parlare con il relitto. Sí, a parlare, avete capito bene; solo che con me il computer ha sempre sbuffato, mentre con lui, docile docile, ha obbedito e ha stampato…»

«In verità Prof, sono certo che staremmo qui ore e ore ad ascoltarti, e non sarebbe carino nei confronti degli sposi, però prima che vengano a portarci di peso ai tavoli, raccontaci di nuovo, se ne hai voglia, la genesi dei tuoi mitici “uno”, ché magari qualcuno degli ultimi arrivati – dice Bunny rivolgendosi al pubblico di curiosi fattosi nel frattempo numeroso – non conosce ancora questa storia…»

«Caro Bunny, non mi sottraggo di certo all’invito. Or dunque, dobbiamo risalire ai tempi delle lotte studentesche, quando fui “caldeggiato” a conservare l’usanza del sei politico, all’insegna della didattica moderna, da proletari coscienti che rifiutano la selezione di classe vista come uno dei volti del regime. Io approvai la proposta, definendola addirittura un’“idea brillante”. Osservai, però, come il proletariato, in quanto degno surrogato di braccianti, contadini e pezzenti, non ne avesse ancora “inzeccata” una nei due secoli della sua esistenza, e tale constatazione spinse la parte di me compagno ad aderire all’istanza, l’insegnante ad avversarla, il docente di storia a collegarla all'antico e recente concetto del manipolo. Dunque, conclusi che avrei senz’altro accettato di assegnare il sei politico ad ognuna di queste anime, passate e presenti… La cosa lí per lí piacque, ma poi aleggiò un sospetto: “Prof, ma a testa quanto viene?”, fu una voce che si alzò dagli ultimi banchi. Potete immaginare quale fu la mia risposta, vero? Con un ghigno dissi alla classe intera: “Compagni, da rivoluzionari degni dello Smolny venite trasformandovi negli gnomi della Borsa, venali nel calcolo dei dividendi, dei titoli, perfino dimentichi della piú semplice operazione: se un manipolo di sei ottiene un sei, il singolo miliziano ha un uno, immutati la bontà della richiesta popolare e il conseguimento rivoluzionario”. Dopo inventai le varianti dell’uno, ve le ricordate, no? C’era l’uno meno: negatività ritoccata in basso; l’uno piú: la medesima nei giorni di svenamento per impetuosa bontà; l’uno GTD, GL, Special e GT: valore imprecisato. E c’erano gli “incentivi”, che guadagnavate con le letture: l'alfa, uguale a 0,1; l'alfa piú, a 0,2; l'alfa piú piú, a 0,3; l'espilon, a 0,5; la k, a 0,6. Gli uno erano riservati alle interrogazioni; le sigle agli errori commessi durante le lezioni; poi c’erano le perle “garofano” e “testa craxiana”, che voi non avete conosciuto, in serbo per gli spropositi madornali…

«Babbo, ma è la mia festa o è il tuo giorno di teatro – grida Irene fingendo di essere un po’ arrabbiata, ma le si legge in viso che è contenta di rivedere l'istrionico genitore carico e sorridente a sole tre ore dalla “tragedia” –, dentro siamo tutti pronti e mancate solo voi!»

Non le diamo neppure il tempo di finire il richiamo che balziamo in piedi e ci dirigiamo ai nostri posti, identificati con icone tratte dalla mitologia greca, tanto per non perdere l’allenamento…

Il pranzo scorre via con leggerezza e tra una portata e l’altra ci scappa ancora qualche battuta; Bunny è in forma smagliante e duetta con il Prof, volando molto in alto!

Alle sei, sazi e contenti, iniziamo il giro dei saluti, e dal nostro Ferrys riceviamo una pernacchia (che sia durato cosí poco il lutto? Mah!).

Ecce homo! Che sgorghino dai tuoi occhi lacrime di gioia o di dolore; che tu, come Giano, ci mostri la faccia buffa e felice per la figlia finalmente sposa o l’altra faccia tirata e funerea per la figlia sposa troppo presto; che tu dica di essere in lutto per la perdita incolmabile o che, anelando alla tua dipartita, tu voglia trasferire il tuo lutto su di noi; nonostante ciò, tu, per noi, sarai sempre il Pazzo, il Boia, il Prof: Luciano Ferrari…

Resisti Prof, ché tra tutti gli epiteti guadagnati nel corso della gloriosa carriera uno di sicuro manca all’appello: quando un frugoletto alto cosí chiederà alla mamma di andare dal Nonno Matto, e vedendoti ti verrà incontro trotterellando, allora, se vorrai, tu, Bunny, Celi ed io riparleremo con piacere di “Pithaar”, del pitone di Benevento, degli uno e di questa… “tremenda giornata di lutto”!

© Luglio 2005 Massimo Binelli. Tutti i diritti riservati su testo e foto.



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Aronta è quel ch'al ventre li s'atterga,

che ne' monti di Luni, dove ronca

lo Carrarese che di sotto alberga,

ebbe tra ' bianchi marmi la spelonca

per sua dimora; onde a guardar le stelle

e 'l mar no li era la veduta tronca.




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Caty on :

mi sono divertita un mondo a leggere la cronaca del matrimonio a cui non ho potuto assistere per motivi di lavoro (vivo in Inghilterra)... Ti ringrazio per avermi dato la possibilità di assistere "virtualmente" a quest'evento. :-)

Diretti interessati on :

... ti ringraziamo per la delicatezza con cui hai tratteggiato il Ferrys e il suo tormento interiore... per non parlare del fatto di averlo sorretto per tutta la cerimonia...

:-)

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