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Il Blog di Massimo Binelli

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Gutta cavat lapidem” è un proverbio molto amato dai nostri padri Latini. Lo troviamo in brani di Lucrezio, di Ovidio, di Seneca, ma all’epoca aveva un significato prevalentemente negativo, perché indicava gli effetti dannosi di un’azione, anche lieve, ma ripetuta e continua nel tempo. Una goccia d’acqua, infatti, è capace di scavare, e dunque rovinare, la pietra, il marmo o una roccia, se cade regolarmente e sempre nello stesso punto per anni. A me, invece, piace interpretare l’azione di quella piccola goccia come la ferrea volontà di raggiungere un obiettivo, non in funzione della sua forza, ma in virtù della sua perseveranza, o resilienza, per usare un termine ormai di moda, ovvero della capacità di tenere intatta la motivazione per tutto il tempo necessario a raggiungere quell’obiettivo.

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Chi ha vissuto almeno un giorno senza un imprevisto, alzi la mano! Senza bisogno di diventare paragnosta figlio di paragnosta posso assicurare che di mani alzate non ne ho visto. Il sistema sociale che abbiamo costruito attorno a noi come una fortezza, solida ma dalle pareti di cristallo, sta diventando ogni giorno sempre più complesso, caotico e imprevedibile, nonostante l’illusione data dalla trasparenza che ci fa sembrare di avere tutto sotto controllo! Nella Pillola 74 avevo introdotto per la prima volta il concetto della “resilienza”, applicato allo sport. Dicevo che il termine “resilienza” è impiegato in molti campi, dall’ingegneria, per definire la caratteristica di un materiale di assorbire energia senza rompersi, all’informatica, per indicare la capacità di un sistema di garantire la propria continuità di servizio; dalla biologia, per spiegare la proprietà di un sistema vivente di tornare al proprio equilibrio dopo una variazione o un danno, alla psicologia, per definire la capacità di una persona di reagire in modo positivo alle difficoltà e ai traumi e riorganizzare la propria vita riuscendo persino a raggiungere obiettivi importanti, ma le dure prove che abbiamo affrontato negli ultimi tempi, a partire dalla prima ondata di pandemia da Covid-19, mi hanno fatto tornare in mente un termine che avevo scoperto nel 2012, tuttavia all’epoca l’avevo snobbato, classificandolo tra le americanate modaiole. Mi riferisco all’antifragilità.

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Nella Pillola 153 ho definito la motivazione come un fuoco che si sprigiona e continua ad ardere dentro alla pancia immediatamente dopo aver fissato un obiettivo importante. È una vera e propria… Onda di energia che ti spinge a cambiare un’abitudine o un comportamento, oppure a sopportare allenamenti dolorosi e faticosi, tanto dal punto di vista fisico quanto da quello mentale, per migliorare la tua prestazione. Ho scritto Onda con la maiuscola, perché è proprio di una certa Trebisonda, diventata prima Onda e poi definitivamente Ondina, di cui oggi intendo parlare, per affrontare la motivazione da un altro punto di vista.

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A Campi Bisenzio, in Toscana, la regione in cui vivo, c’è lo stadio “Emil Zatopek”, dove ogni anno si svolgono manifestazioni importanti di atletica leggera. Nel settembre 2019, per esempio, ha ospitato i Campionati Italiani Master e il sottoscritto, ovviamente, ha disputato il fatidico Giro della Morte. Quando vengono organizzate gare del settore giovanile (alle quali, come è noto, partecipo finché riuscirò a far “mangiare la polvere” a qualche baldo giovine, in virtù del mio motto: “Alla partenza ti guardano con sufficienza, al traguardo con riverenza”), la domanda aleggia immancabilmente nell’aria: “Zatopek, chi era costui?

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Il titolo di questa Pillola l’ho preso in prestito dal sesto capitolo di “Inseguendo Bolt”, libro di Pietro Mennea scritto in collaborazione con l’amico Daniele Menarini, condirettore del mensile “Correre”, uscito nel settembre del 2012, pochi mesi prima della scomparsa della Freccia del Sud. Mennea cita testualmente Usain Bolt, là dove parla del suo coach e lo considera «il migliore allenatore del mondo, un ottimo stratega e un grande motivatore». Non c’è dubbio, infatti, che Glen Mills, questo è il suo nome, sia l’artefice dei due record stratosferici del Fulmine della Giamaica, il 9.58 nei 100 metri e il 19.19 nei 200 metri, tempi che molto probabilmente resisteranno ben più dei 17 anni lungo i quali il 19.72 fatto segnare da Mennea nel 1979 (tuttora record europeo) è rimasto inviolato. Nelle parole di Bolt è possibile ritrovare gli ingredienti della mia Formula dell’Atleta Vincente

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Con le staffette 4x400, che hanno assegnato le ultime medaglie, si sono chiusi, domenica 15 settembre, allo stadio “Giovanni Chiggiato” di Caorle, i Campionati Europei Master di Atletica Leggera, tornati in Italia, a Venezia, e distribuiti tra le sedi di Jesolo, Eraclea e Caorle, dopo ben 21 anni di assenza (l’ultima edizione outdoor sul territorio nazionale risale al settembre 1998, quando si disputarono a Cesenatico).

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Quand’ero un ragazzino, quindi non molto tempo fa, mi ero messo in testa di imparare a suonare la chitarra. Era l’epoca delle grigliate selvagge in collina, dei fuochi notturni in spiaggia e delle mega feste tra amici, dove immancabilmente chi portava la chitarra e iniziava a strimpellare “Sapore di sale” o “Il gatto e la volpe”, classiche canzonette da Giro di Do che si imparavano in mezzora, attirava le ragazze come il miele attira le api. Avevo fatto il diavolo a quattro, finché la mamma, per la sua salute mentale più che per il mio bene, aveva capitolato. Di lì a poco avevo tra le mani una dignitosissima Eko con corde in nylon. Sono diventato un emulo di Santana?

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Dopo aver trattato il tema del muro del trentesimo chilometro, che un maratoneta professionista oggi affronta dopo circa 90 minuti di corsa a un ritmo disumano di 3 minuti al chilometro, ossia 18 secondi ogni 100 metri (e chi non ha la percezione di tali misure provi a correre anche soltanto 300 metri a questa andatura, poi ci ragioniamo su), spingermi ad associare il concetto di “resistenza” a un tempo di 30 secondi può sembrare un tantino azzardato. Eppure non è così, perché dopo 30 secondi di sforzo massimo, nei meandri della mente di un atleta (ma potrei dire di un essere umano in generale), succede qualcosa di molto insidioso.

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Open”, la biografia di Andre Agassi è uno di qui libri che io definisco stregati. Sono scritti con un’alchimia tale che quando inizi a leggerli non vorresti più smettere fino alla fine, ma nel contempo, man mano che divori le pagine (e sono quasi 500!), ti viene voglia di rallentare, per non far finire l’idillio troppo in fretta. Il mio obiettivo, da mental coach, era quello di capire tra le righe quali strategie possa aver adottato un atleta che, pur odiando con tutto il cuore il suo sport, il tennis, è riuscito, unico al mondo, a vincere un Golden Slam, cioè i quattro tornei del Grande Slam più l’oro olimpico.

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Il cosiddetto “muro del trentesimo chilometro”, noto anche come “muro della maratona”, è l’incubo di molti maratoneti. Anche quando il crollo fisico non avviene, si verifica comunque un pesante calo di energia mentale, per effetto della profezia che si autoavvera: temo il muro, me lo aspetto, cerco di non pensarci ma in realtà mi logoro e quando arriva sono mentalmente sfinito. E su quel muro spesso si infrange rovinosamente il sogno di arrivare al traguardo dei 42 chilometri e 195 metri.

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